San Salvo e nonna Caterina
di Maria Mastrocola Dulbecco
di Maria Mastrocola Dulbecco
Non
ti ho mai dimenticata.
Eravamo
sedute su quel balcone nelle lunghe sere d’estate io e te, nonna.
Tu
pregavi. Io sognavo.
Tu
pregavi. Io guardavo le stelle.
Quelle
stelle, complice il buio, erano nitide e lucenti.
Qualche
volta smettevi di pregare e parlavi con me. Mi raccontavi episodi della tua
vita quando mi sentivi predisposta ad ascoltarti. Ricordavi cosa avevano
raccontato a te da bambina e osservando la luna piena, una sera mi hai fatto notare
come in quel disco luminoso si vedesse nitidamente la figura di un uomo che
cercava di oscurarla. Mi dicevi “Vedi? È Bertoldo. Con un fascio di sterponi
cercava di oscurare la luna e nel tentativo di coprirla, perché gli altri non
lo vedessero mentre rubava i covoni di grano, vi rimase attaccato e fu
condannato a restarci per l’eternità”.
Io
vedevo chiaramente la figura da te indicata e pensavo a quel povero Bertoldo
che sicuramente non si trovava a proprio agio in quella scomoda posizione.
Sono
poi andati sulla luna, nonna, quando tu non eri più con noi. Quelle ombre non
erano di Bertoldo, ma delle montagne ed io non ho potuto dirtelo. Non volevo
crederci, ma dimostrarono che era così. In verità lo sapevamo anche prima, ma
io preferivo credere a te.
Hanno
cominciato così a distruggere i miei sogni.
Tu
pregavi. Io fantasticavo.
No,
non ricordo amore.
Già
da piccola avvertivo che in quel paese non c’era calore, sapevo che sarei
dovuta andare via.
Le
strade erano di fango e le case non avevano acqua corrente.
Il
banditore, a pagamento, annunciava dove andare a comprare i piselli freschi e
se in piazza era arrivato il pesce o la frutta di stagione a buon prezzo. Si
faceva precedere da due squilli e poi con quanto fiato aveva in gola
reclamizzava la merce e il luogo.
I
carretti tirati da asini e cavalli, partivano al mattino presto per i campi e
tornavano alla sera in fila superando la salita della “curva” oppure quella più
ripida della “fonte”.
Fatti
importanti ne accadevano pochi, qualche nascita, un matrimonio, le due feste
patronali del paese quando arrivavano persino i gelati.
Non
dimentico due fatti importanti. Due omicidi a distanza di qualche anno uno
dall’altro. La mia piccola mente non poteva concepire come un fratello potesse
togliere la vita ad un altro. Non lo capivo. Non c’era amore.
Eppure
le persone si sposavano e i bambini nascevano come in ogni altro posto.
Non
c’era calore in quel paese, non c’era tenerezza, le carezze erano gesti ai
quali gli abitanti non erano avvezzi. Gesti di cui ci si vergognava.
Il
fango, il fango abbondava nell’inverno.
L’acqua
sporca si buttava dalla finestra, un po’ sparsa perché si asciugasse in fretta.
Quando era più abbondante la si portava con una tinozza fino al lato della
strada dove veniva rovesciata in una cunetta scavata alla meglio, nella quale
scorreva un rigagnolo che provvedeva a convogliare queste acque tutte nella
medesima direzione, la “Forma”, un canale artificiale che si trovava a destra
del paese.
Non
c’era grande povertà e neppure grande ricchezza.
Il
fango, tanto fango specialmente se pioveva e poi tantissimo quando subito dopo
la guerra si fecero gli scavi per le fognature e per portare l’acqua nelle
case.
In
quel periodo era possibile camminare per le strade, soltanto grazie alla buona
volontà di molti che, spinti dalla necessità, avevano provveduto a posare uno
dopo l’altro, dei grossi sassi lungo i percorsi abituali.
Non
c’era amore. Poi arrivarono le suore, delle piccole umili suore che si
adattarono ai nostri usi e ci insegnarono che c’era l’amore di Gesù.
Accolsi
nel mio cuore questo sentimento grande, ma anche questo lo tenni celato come
ogni altro sentimento senza mai tradire emozioni che sarebbero sembrate strane.
Contegno,
freddezza, rudezza.
Questo
è il paese dove sono cresciuta e dove ritorno saltuariamente trovandolo sempre
diverso ricordando che: io ero qui quando questa terra era ostile e regalava
solo poesia, troppo poco per vivere e troppo per una pace senza risorse.
Ora
tutto è in fermento, tutto in costruzione.
I
volti noti non ci sono più o ne vedi pochi, gli altri, i nuovi arrivati, sono
tanti e li vedi padroni di quei tuoi sogni defraudati a te dalla vita che
lenta, inesorabile, ti fa guardare avanti ma non ti permette di dimenticare.
Amavo
il mare, il suo fragore lontano nelle giornate di burrasca.
Alla
sera uscivo sull’uscio di casa e nel buio della notte mi lasciavo rapire da
quel rumoreggiare lontano e affascinante che proveniva da quell’enorme massa
d’acqua in movimento.
L’Adriatico
doveva agitarsi moltissimo se a tre chilometri di distanza ne percepivo un
suono così distinto.
In
quelle notti il cielo era limpido e il mare si sostituiva alle stelle per
regalarmi sensazioni stupende.
La
battaglia della vita è ora come quel mare in burrasca.
Il
mio mare è lontano, il suo rumore non giunge fino al mio udito.
Quella
casa in mezzo agli ulivi non esiste più, le nuove costruzioni l’hanno
soffocata; i dintorni hanno subito una trasformazione tale da rendere
irriconoscibili quei luoghi ormai vivi solo nella memoria di chi li ha
vissuti.
Era
un casa dove si era sempre in attesa di qualcuno che doveva arrivare.
Prima
la nonna che aspettava suo figlio che viveva al nord, poi mia madre che
aspettava noi e di questo aspettare c’era tutta la speranza e il desiderio del
ritrovarsi che aiutava a vivere.
Vivere.
La vita cos’è.
La
bontà cos’è.
La
cattiveria cos’è. Cos’è la lontananza.
Spesso
mi sono sentita come un’emigrante in patria. Si è sempre emigranti quando si va
via, giovanissimi, da dove abbiamo imparato a conoscere, al mattino, da quale parte
sorge il sole, e alla sera, dove tramonta. Si diventa senza più riferimenti.
Lontana
da quei luoghi, non ho più saputo discernere l’alba e il tramonto, schiacciata
tra il cemento e gli affanni.
Quando
ho preso il treno, alle quattro del pomeriggio, in quella piccola stazione
sulla direttrice Lecce-Milano, lasciavo alle spalle un paese che viveva
arroccato sulla prima altura situata a pochi chilometri dal mare. Anche la
breve distanza dalla stazione ferroviaria rappresentava un percorso difficile
da superare poiché, anche se non sto parlando del medioevo, i mezzi di
comunicazione e trasporto con i centri più vicini erano inesistenti.
Si
viveva nel silenzio o meglio nel silenzio dei rumori familiari, quelli del
fabbro, del falegname, anche quello della macchina da cucire di mia madre,
delle campane e dei passi che risuonavano nelle strade.
Nei
pomeriggi estivi, il paese dormicchiava e la calura conciliava le pennichelle
dei suoi abitanti.
Eugenio
suonava il “Vent’unora”, non ne conosco il significato ma allora era il tardo
pomeriggio. In tempo di mietitura gli addetti a falciare il grano si fermavano
per una merenda.
Poi
Eugenio, che era il sacrestano suonava il “Vespro”, l’ “Ave Maria” e terminava
la sua fatica chiudendo la porta della chiesa e avviandosi verso casa con
un’andatura leggermente curva su un lato e un fare lento e pensieroso.
Suonava
poi l’ “alba”, la “missitella”, il “mezzogiorno”.
Le
campane scandivano la vita di tutti gli abitanti.
Alla
domenica poi, in occasione della “messa cantata” suonavano a distesa.
Mentre
queste scampanellavano, le donne in casa erano affaccendate ai fornelli e dalle
finestre uscivano profumi di carne sul fuoco, pranzi riservati solo alla
domenica poiché durante la settimana, sui deschi imperava solo la pasta asciutta
impastata in casa, condita con semplice pomodoro e magari con una spruzzatina
di pecorino.
La
monotonia del suono delle campane che scandivano il tempo nell’arco della
giornata, veniva rotta solamente dal diverso scampanio che annunciava
una morte o l’arrivo di nubi minacciose che promettevano vento e grandine
magari proprio in prossimità del raccolto del grano coltivato a grande
maggioranza.
Il
suono che annunciava a tutti la dipartita di uno degli abitanti era greve e
lento. Rintocchi tristi che venivano ripetuti più volte a distanza ravvicinata
e il numero delle volte era determinato dall’importanza del personaggio.
A
quel suono le donne si affacciavano sull’uscio ad interrogarsi.
La
vecchia Zia Maria chiedeva a Carmela: “Chi è morto?” “Non so” facevo eco zia
Serafina affacciandosi alla finestra.
La
nonna, Caterina, si spingeva più in là e arrivava sino in cima
alla “ruella”che sbucava sul corso principale. Al primo passante chiedeva
e dopo parecchi “non so” che duravano al massimo un quarto d’ora, di rimbalzo
arrivava il nome.
Allora,
la donna di casa si pettinava i capelli raccolti a crocchia sulla sommità del
capo, si metteva un fazzoletto in testa legato sotto il mento, possibilmente
nero, e correva a portare il primo saluto della famiglia, ai parenti del morto
i quali erano già pronti per ricevere quelle visite seduti attorno al defunto
adagiato sul letto allestito per l’occasione con la massima cura.
Alla
sera andavano gli uomini, mentre le donne si organizzavano per la veglia
notturna.
Prima
della guerra non esistevano “thermos”, ma poi arrivarono anche quelli e così il
caffè veniva portato caldo per tutti poiché in quella casa, mentre c’era il
morto presente non si sarebbe acceso fuoco alcuno per cibi e bevande
calde.
Ogni
familiare era rigorosamente seduto al posto che gli competeva a fianco del
letto, secondo il suo grado di parentela.
La
stanza funebre veniva liberata da tutti i mobili trasportabili e al loro posto
venivano allineate sedie in gran quantità così che i visitatori trovassero
posto a sedere in circolo attorno al letto funebre.
Per
quasi due giorni, tutto il paese sfilava e si soffermava in questa stanza come
a voler tenere compagnia al morto, per l’ultima volta.
Il
motivo non era solo quello; ci si ritrovava un po’ tutti ed era l’occasione per
conversare, anche se sommessamente.
Qualcuno
si fermava più del necessario per raccogliere maggiori informazioni sugli
ultimi avvenimenti degli altri o aspettando magari qualche persona che non
vedeva da tempo. A bassa voce si scambiavano notizie sulle loro famiglie e sui
fatti dei paese e non di rado, si gettavano le basi per combinare matrimoni tra
giovani che neppure si conoscevano, lasciando alla discrezionalità dei genitori
valutare la convenienza sociale ed economica di favorire un simile approccio.
I
componenti della famiglia del malcapitato, a turno, piangevano il morto a voce
alta e con una specie di cantilena rievocavano la vita di costui esaltandone le
qualità.
Nel
caso il defunto in questione, in vita, fosse stato un po’ carognetta verso
alcuni familiari, costoro coglievano l’occasione per intercalare le cantilene
con frecciatine, più che dirette al morto, dirette alle persone in vita che
avrebbero beneficiato dei torti da loro subiti e non raramente i chiamati in
causa rispondevano con lo stesso indiretto sistema.
In
questi casi l’eco si estendeva fuori dalla stanza, fuori dalla casa, così che i
curiosi visitatori diventavano più numerosi per non perdersi le varie battute.
L’avvenimento
di una morte si trasformava così in un’occasione per comunicare e conoscere le
storie di attualità del paese. Era la televisione o il settimanale
scandalistico dell’epoca, un bollettino che veniva ascoltato e riferito a chi
non era presente.
Era
cronaca rosa, cronaca gialla, argomenti sussurrati con autentico mistero,
cronaca nera. Tutto il paese passava sotto i racconti delle croniste del tempo
poiché le più informate erano sempre le donne.
La
signora “bene” che non usciva mai da casa, mandava la serva a raccogliere
informazioni e questa si documentava scrupolosamente per riferire ogni
particolare che riteneva potesse interessare la sua “padrona”.
Ricordo,
per tutti, Donna Elvira (casa che frequentavo da bambina) e la sua serva
Francesca.
E
queste erano poi le notizie sulle quali si sarebbero accentrati tutti i
discorsi fino a nuovi avvenimenti.
Eugenio
espletava tutte le incombenze relative ai funerali.
Suonava
le campane a morto, preparava il catafalco, le sedie in chiesa e non
dimenticava niente. Tutto veniva allestito secondo i desideri dei familiare e
in proporzione alla retribuzione concordata.
Lui,
Eugenio, suonava anche l’organo in verità un po’ sfiatato a causa del mantice
ridotto in cattive condizioni e cantava i salmi con un biascicato latino che
non era necessario fosse comprensibile; l’unico latino ‘conosciuto’ era infatti
quello delle preghiere recitate dagli anziani del paese ascoltando le quali si
poteva intendere quanto poco se ne masticasse.
Naturalmente
c’era anche il parroco, ma Don Oreste poco si occupava di tali faccende.
Viveva
ritirato nella sua casa dedicandosi al proprio arricchimento intellettuale che
poteva coltivare anche grazie al fatto che egli possedeva una delle poche radio
esistenti in paese che tra l’altro, durante la guerra, (si diceva che
ascoltasse “Radio Londra”) gli permetteva di essere sempre aggiornato sugli
ultimi bollettini di guerra.
L’ultimo
atto della vita vissuta in quel paese era quello di essere accompagnato dal
parroco e da tutti gli abitanti lungo il viale alberato che conduceva al
cimitero.
Dal 1944
in poi nei discorsi di tutti, gli avvenimenti venivano indicati come
accaduti:
-
prima della guerra
-
dopo la guerra.
Maria Mastrocola Dulbecco