LA CAS A LU QUART’ABBALL
di Maria Mastrocola Dulbecco
La prima casa che ricordo di aver abitato era sita sulla strada più larga del paese, via Roma. Il posto era quasi all’inizio di questa strada dove il marciapiedi si allargava notevolmente dopo un inizio a spigolo dall’angolo della strada precedente dove c’era il negozio di un orefice: Piscicelli.
Era ad un solo piano con una porta ed una finestra che davano sul davanti della casa, verso la strada, esse illuminavano le due stanze che servivano da cucina , poi pranzo e da laboratorio per l’attività di mia madre e forse anche come camera per mia nonna Caterina..
In questo versante il sole batteva al mattino ma nel pomeriggio, l’ombra regnava a regalare frescura in estate dove con la mia preziosa sediolina impagliata, avevo il permesso di sedermi a giocare vicino all’uscio di casa.
Nel versante opposto c’era la grande camera da letto della mamma, da quella parte vi era un finestrino non molto grande ed una porta che davano sull’orto-giardino.
Ricordo poco di quell’orto. Nel centro vi era una piccola casetta che attirava la mia attenzione ma la mamma non mi mandava volentieri forse perché d’estate era il posto più assolato e aveva anche il timore che potessi pungermi con le ortiche che, non so se è solo la mia fantasia a ricordarlo, abbondava in quell’orto coltivato solo in minima parte.
Il mio ricordare non può essere molto preciso se da quella casa andammo via poco prima che compissi sei anni. Era l’anno in cui cominciai ad andare a scuola ed in virtù di una legge che ammetteva l’iscrizione alla prima elementare in anticipo per tutti quelli che compivano gli anni entro l’anno vecchio.
Non avevo frequentato l’asilo poiché ricordo di non aver sopportato il rumore che il vocio dei bambini faceva rimbombare in quella grande aula di S. Nicola che era stata una vecchia chiesa. Mi accompagnava la maestra Candalina e aveva riferito alla mamma il mio non sopportare l’ambiente tanto che mi ero seduta al banco tappandomi le orecchie. Quindi la mia esperienza all’asilo, durò due giorni.
Altra esperienza fu la scuola che mi attirò subito e che frequentai con piacere e profitto.
Avevo una sorella più grande, ma lei andava già a scuola. anzi, terminava proprio quell’anno le elementari e quei cinque anni in più facevano si che non la considerassi una compagna di giochi. Lei, ai miei occhi, era una signorina. Poi con i suoi vestitini così belli e con cappellini e berrettini, messi di traverso sulla fronte…era veramente grande e la guardavo con ammirazione.
Conservo ancora alcune fotografie di quel periodo appunto con me che ero un piccolo imbronciato frugoletto nero (per via dei miei capelli nerissimi) issata su una sedia al centro , con mia madre da un lato e dall’altra mia sorella con il suo soprabitino elegante, le calzine bianche e il berrettino pure bianco con un’aria da donnina piena di sussiego.
Era ad un solo piano con una porta ed una finestra che davano sul davanti della casa, verso la strada, esse illuminavano le due stanze che servivano da cucina , poi pranzo e da laboratorio per l’attività di mia madre e forse anche come camera per mia nonna Caterina..
In questo versante il sole batteva al mattino ma nel pomeriggio, l’ombra regnava a regalare frescura in estate dove con la mia preziosa sediolina impagliata, avevo il permesso di sedermi a giocare vicino all’uscio di casa.
Nel versante opposto c’era la grande camera da letto della mamma, da quella parte vi era un finestrino non molto grande ed una porta che davano sull’orto-giardino.
Ricordo poco di quell’orto. Nel centro vi era una piccola casetta che attirava la mia attenzione ma la mamma non mi mandava volentieri forse perché d’estate era il posto più assolato e aveva anche il timore che potessi pungermi con le ortiche che, non so se è solo la mia fantasia a ricordarlo, abbondava in quell’orto coltivato solo in minima parte.
Il mio ricordare non può essere molto preciso se da quella casa andammo via poco prima che compissi sei anni. Era l’anno in cui cominciai ad andare a scuola ed in virtù di una legge che ammetteva l’iscrizione alla prima elementare in anticipo per tutti quelli che compivano gli anni entro l’anno vecchio.
Non avevo frequentato l’asilo poiché ricordo di non aver sopportato il rumore che il vocio dei bambini faceva rimbombare in quella grande aula di S. Nicola che era stata una vecchia chiesa. Mi accompagnava la maestra Candalina e aveva riferito alla mamma il mio non sopportare l’ambiente tanto che mi ero seduta al banco tappandomi le orecchie. Quindi la mia esperienza all’asilo, durò due giorni.
Altra esperienza fu la scuola che mi attirò subito e che frequentai con piacere e profitto.
Avevo una sorella più grande, ma lei andava già a scuola. anzi, terminava proprio quell’anno le elementari e quei cinque anni in più facevano si che non la considerassi una compagna di giochi. Lei, ai miei occhi, era una signorina. Poi con i suoi vestitini così belli e con cappellini e berrettini, messi di traverso sulla fronte…era veramente grande e la guardavo con ammirazione.
Conservo ancora alcune fotografie di quel periodo appunto con me che ero un piccolo imbronciato frugoletto nero (per via dei miei capelli nerissimi) issata su una sedia al centro , con mia madre da un lato e dall’altra mia sorella con il suo soprabitino elegante, le calzine bianche e il berrettino pure bianco con un’aria da donnina piena di sussiego.
In quella foto, fatta da un fotografo ambulante di passaggio che stendeva una coperta sul muro per fare da sfondo e qualche volta, come in questo caso, il suo obiettivo saliva al di sopra di quello sfondo improvvisato e coglieva i mattoni che formavano il muro retrostante.
Questi fotografi ambulanti giravano con una macchina fotografica grande e nera, issata su un trespolo che poi appoggiavano con cura per terra e per sviluppare le foto, chiedevano una bacinella piena di acqua dove immergevano quei rettangoli di carta dai quali vedevamo apparire le immagini scattate tra lo stupore e l’ammirazione per quell’uomo che operava un tale prodigio con le sue strane magie.
Ricordo nitidamente queste scene anche se ero piccolissima, evidentemente mi avevano impressionata moltissimo.
In seguito, sempre in quella casa, arrivò il fratellino che ebbe il buon senso di arrivare in primavera, il quattordici Marzo ma stranamente, quel giorno arrivò anche una nevicata fuori programma, era il 1939 ed arrivò alcuni mesi prima che ci trasferissimo nel nuovo quartiere in Corso Garibaldi in una casa di tre piani.
Mamma ha comprato questa casa in un quartiere dove non passavano tante macchine perché, a suo dire, temeva per la nostra incolumità nella vecchia casa (non so sen passavano cinque o sei auto al giorno!
Ricordo che prima di comprarla, una sera, mamma mi prese per mano e mi portò a vederla.
Era situata nel III vicolo corso Garibaldi, al terzo piano aveva anche una camera con un balcone che dava alla “ruall” successiva e i due balconi avevano una inferriata particolarmente bella e io cominciai a pensare che avrei trascorso molto tempo su quei balconi, (fu veramente così).
Quella casa aveva un portone importante munito pure di “tuzzulataur” battocchio per chiamarci da sotto.
Pensavo già che da quel balcone potevo aspettare la mia amichetta (mi era stata assegnata senza conoscerla ) si chiamava Maria, come me, e fu poi così che per cinque anni fummo compagne di banco ed in seguito, diventando adolescenti in paese ci chiamavano le due Marie.
Lei abitava in corso Garibaldi in un palazzo, vicino alla vecchia chiesa S. Nicola, dove dividevano gli alloggi con i suoi zii, il suo era all’ultimo piano.
Aveva anche un orto dietro con un albero di gelsi dove ci arrampicavamo con i quaderni per preparare le lezioni. Di lei ricordo molto anche la sua mamma, donna Giuseppina che mi ha voluto molto bene e quando uscivamo ci raccomandava il modo in cui dovevamo comportarci.
Quelle poche volte che abbiamo preso il pulman per andare dalla pettinatrice, a Vasto, ci raccomandava di salutare quando vi salivamo, cosa che ci faceva sorridere e proprio non lo facevamo.
Il mio paese e i miei ricordi, sono un fiume in piena e ne ho parlato molto in altri racconti.
Questi fotografi ambulanti giravano con una macchina fotografica grande e nera, issata su un trespolo che poi appoggiavano con cura per terra e per sviluppare le foto, chiedevano una bacinella piena di acqua dove immergevano quei rettangoli di carta dai quali vedevamo apparire le immagini scattate tra lo stupore e l’ammirazione per quell’uomo che operava un tale prodigio con le sue strane magie.
Ricordo nitidamente queste scene anche se ero piccolissima, evidentemente mi avevano impressionata moltissimo.
In seguito, sempre in quella casa, arrivò il fratellino che ebbe il buon senso di arrivare in primavera, il quattordici Marzo ma stranamente, quel giorno arrivò anche una nevicata fuori programma, era il 1939 ed arrivò alcuni mesi prima che ci trasferissimo nel nuovo quartiere in Corso Garibaldi in una casa di tre piani.
Mamma ha comprato questa casa in un quartiere dove non passavano tante macchine perché, a suo dire, temeva per la nostra incolumità nella vecchia casa (non so sen passavano cinque o sei auto al giorno!
Ricordo che prima di comprarla, una sera, mamma mi prese per mano e mi portò a vederla.
Era situata nel III vicolo corso Garibaldi, al terzo piano aveva anche una camera con un balcone che dava alla “ruall” successiva e i due balconi avevano una inferriata particolarmente bella e io cominciai a pensare che avrei trascorso molto tempo su quei balconi, (fu veramente così).
Quella casa aveva un portone importante munito pure di “tuzzulataur” battocchio per chiamarci da sotto.
Pensavo già che da quel balcone potevo aspettare la mia amichetta (mi era stata assegnata senza conoscerla ) si chiamava Maria, come me, e fu poi così che per cinque anni fummo compagne di banco ed in seguito, diventando adolescenti in paese ci chiamavano le due Marie.
Lei abitava in corso Garibaldi in un palazzo, vicino alla vecchia chiesa S. Nicola, dove dividevano gli alloggi con i suoi zii, il suo era all’ultimo piano.
Aveva anche un orto dietro con un albero di gelsi dove ci arrampicavamo con i quaderni per preparare le lezioni. Di lei ricordo molto anche la sua mamma, donna Giuseppina che mi ha voluto molto bene e quando uscivamo ci raccomandava il modo in cui dovevamo comportarci.
Quelle poche volte che abbiamo preso il pulman per andare dalla pettinatrice, a Vasto, ci raccomandava di salutare quando vi salivamo, cosa che ci faceva sorridere e proprio non lo facevamo.
Il mio paese e i miei ricordi, sono un fiume in piena e ne ho parlato molto in altri racconti.
Per ora mi fermo.
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