NONNA CATERINA
Non ti ho mai dimenticata.
Eravamo sedute su quel balcone nelle lunghe sere d’estate io e te, nonna.
Tu pregavi. Io sognavo.
Tu pregavi. Io guardavo le stelle.
Quelle stelle, complice il buio, erano nitide e lucenti.
Qualche volta smettevi di pregare e parlavi con me. Mi raccontavi episodi della tua vita quando mi sentivi predisposta ad ascoltarti. Ricordavi cosa avevano raccontato a te da bambina e osservando la luna piena, una sera mi hai fatto notare come in quel disco luminoso si vedesse nitidamente la figura di un uomo che cercava di oscurarla. Mi dicevi “Vedi? È Bertoldo. Con un fascio di sterponi cercava di oscurare la luna e nel tentativo di coprirla, perché gli altri non lo vedessero mentre rubava i covoni di grano, vi rimase attaccato e fu condannato a restarci per l’eternità”.
Io vedevo chiaramente la figura da te indicata e pensavo a quel povero Bertoldo che sicuramente non si trovava a proprio agio in quella scomoda posizione.
Sono poi andati sulla luna, nonna, quando tu non eri più con noi. Quelle ombre non erano di Bertoldo, ma delle montagne ed io non ho potuto dirtelo. Non volevo crederci, ma dimostrarono che era così. In verità lo sapevamo anche prima, ma io preferivo credere a te.
Hanno cominciato così a distruggere i miei sogni.
Tu pregavi. Io fantasticavo.
No, non ricordo amore.
Già da piccola avvertivo che in quel paese non c’era calore, sapevo che sarei dovuta andare via.
Le strade erano di fango e le case non avevano acqua corrente.
Il banditore, a pagamento, annunciava dove andare a comprare i piselli freschi e se in piazza era arrivato il pesce o la frutta di stagione a buon prezzo. Si faceva precedere da due squilli e poi con quanto fiato aveva in gola reclamizzava la merce e il luogo.
I carretti tirati da asini e cavalli, partivano al mattino presto per i campi e tornavano alla sera in fila superando la salita della “curva” oppure quella più ripida della “fonte”.
Fatti importanti ne accadevano pochi, qualche nascita, un matrimonio, le due feste patronali del paese quando arrivavano persino i gelati.
Non dimentico due fatti importanti. Due omicidi a distanza di qualche anno uno dall’altro. La mia piccola mente non poteva concepire come un fratello potesse togliere la vita ad un altro. Non lo capivo. Non c’era amore.
Eppure le persone si sposavano e i bambini nascevano come in ogni altro posto.
Non c’era calore in quel paese, non c’era tenerezza, le carezze erano gesti ai quali gli abitanti non erano avvezzi. Gesti di cui ci si vergognava.
Il fango, il fango abbondava nell’inverno.
L’acqua sporca si buttava dalla finestra, un po’ sparsa perché si asciugasse in fretta. Quando era più abbondante la si portava con una tinozza fino al lato della strada dove veniva rovesciata in una cunetta scavata alla meglio, nella quale scorreva un rigagnolo che provvedeva a convogliare queste acque tutte nella medesima direzione, la “Forma”, un canale artificiale che si trovava a destra del paese.
Non c’era grande povertà e neppure grande ricchezza.
Il fango, tanto fango specialmente se pioveva e poi tantissimo quando subito dopo la guerra si fecero gli scavi per le fognature e per portare l’acqua nelle case.
In quel periodo era possibile camminare per le strade, soltanto grazie alla buona volontà di molti che, spinti dalla necessità, avevano provveduto a posare uno dopo l’altro, dei grossi sassi lungo i percorsi abituali.
Non c’era amore. Poi arrivarono le suore, delle piccole umili suore che si adattarono ai nostri usi e ci insegnarono che c’era l’amore di Gesù.
Accolsi nel mio cuore questo sentimento grande, ma anche questo lo tenni celato come ogni altro sentimento senza mai tradire emozioni che sarebbero sembrate strane.
Contegno, freddezza, rudezza.
Questo è il paese dove sono cresciuta e dove ritorno saltuariamente trovandolo sempre diverso ricordando che: io ero qui quando questa terra era ostile e regalava solo poesia, troppo poco per vivere e troppo per una pace senza risorse.
Ora tutto è in fermento, tutto in costruzione. I volti noti non ci sono più o ne vedi pochi, gli altri, i nuovi arrivati, sono tanti e li vedi padroni di quei tuoi sogni defraudati a te dalla vita che lenta, inesorabile, ti fa guardare avanti ma non ti permette di dimenticare.
Amavo il mare, il suo fragore lontano nelle giornate di burrasca.
Alla sera uscivo sull’uscio di casa e nel buio della notte mi lasciavo rapire da quel rumoreggiare lontano e affascinante che proveniva da quell’enorme massa d’acqua in movimento.
L’Adriatico doveva agitarsi moltissimo se a tre chilometri di distanza ne percepivo un suono così distinto.
In quelle notti il cielo era limpido e il mare si sostituiva alle stelle per regalarmi sensazioni stupende.
La battaglia della vita è ora come quel mare in burrasca.
Il mio mare è lontano, il suo rumore non giunge fino al mio udito.
Quella casa in mezzo agli ulivi non esiste più, le nuove costruzioni l’hanno soffocata; i dintorni hanno subito una trasformazione tale da rendere irriconoscibili quei luoghi ormai vivi solo nella memoria di chi li ha vissuti.
Era un casa dove si era sempre in attesa di qualcuno che doveva arrivare.
Prima la nonna che aspettava suo figlio che viveva al nord, poi mia madre che aspettava noi e di questo aspettare c’era tutta la speranza e il desiderio del ritrovarsi che aiutava a vivere.
Vivere. La vita cos’è.
La bontà cos’è.
La cattiveria cos’è. Cos’è la lontananza.
Spesso mi sono sentita come un’emigrante in patria. Si è sempre emigranti quando si va via, giovanissimi, da dove abbiamo imparato a conoscere, al mattino, da quale parte sorge il sole, e alla sera, dove tramonta. Si diventa senza più riferimenti.
Lontana da quei luoghi, non ho più saputo discernere l’alba e il tramonto, schiacciata tra il cemento e gli affanni.
Quando ho preso il treno, alle quattro del pomeriggio, in quella piccola stazione sulla direttrice Lecce-Milano, lasciavo alle spalle un paese che viveva arroccato sulla prima altura situata a pochi chilometri dal mare. Anche la breve distanza dalla stazione ferroviaria rappresentava un percorso difficile da superare poiché, anche se non sto parlando del medioevo, i mezzi di comunicazione e trasporto con i centri più vicini erano inesistenti.
Si viveva nel silenzio o meglio nel silenzio dei rumori familiari, quelli del fabbro, del falegname, anche quello della macchina da cucire di mia madre, delle campane e dei passi che risuonavano nelle strade.
Nei pomeriggi estivi, il paese dormicchiava e la calura conciliava le pennichelle dei suoi abitanti.
Eugenio suonava il “Vent’unora”, non ne conosco il significato ma allora era il tardo pomeriggio. In tempo di mietitura gli addetti a falciare il grano si fermavano per una merenda.
Poi Eugenio, che era il sacrestano suonava il “Vespro”, l’ “Ave Maria” e terminava la sua fatica chiudendo la porta della chiesa e avviandosi verso casa con un’andatura leggermente curva su un lato e un fare lento e pensieroso.
Suonava poi l’ “alba”, la “missitella”, il “mezzogiorno”.
Le campane scandivano la vita di tutti gli abitanti.
Alla domenica poi, in occasione della “messa cantata” suonavano a distesa.
Mentre queste scampanellavano, le donne in casa erano affaccendate ai fornelli e dalle finestre uscivano profumi di carne sul fuoco, pranzi riservati solo alla domenica poiché durante la settimana, sui deschi imperava solo la pasta asciutta impastata in casa, condita con semplice pomodoro e magari con una spruzzatina di pecorino.
La monotonia del suono delle campane che scandivano il tempo nell’arco della giornata, veniva rotta solamente dal diverso scampanio che annunciava una morte o l’arrivo di nubi minacciose che promettevano vento e grandine magari proprio in prossimità del raccolto del grano coltivato a grande maggioranza.
Il suono che annunciava a tutti la dipartita di uno degli abitanti era greve e lento. Rintocchi tristi che venivano ripetuti più volte a distanza ravvicinata e il numero delle volte era determinato dall’importanza del personaggio.
A quel suono le donne si affacciavano sull’uscio ad interrogarsi.
La vecchia Zia Maria chiedeva a Carmela: “Chi è morto?” “Non so” facevo eco zia Serafina affacciandosi alla finestra.
La nonna si spingeva più in là e arrivava sino in cima alla “ruella” che sbucava sul corso principale. Al primo passante chiedeva e dopo parecchi “non so” che duravano al massimo un quarto d’ora, di rimbalzo arrivava il nome.
Allora, la donna di casa si pettinava i capelli raccolti a crocchia sulla sommità del capo, si metteva un fazzoletto in testa legato sotto il mento, possibilmente nero, e correva a portare il primo saluto della famiglia, ai parenti del morto i quali erano già pronti per ricevere quelle visite seduti attorno al defunto adagiato sul letto allestito per l’occasione con la massima cura.
Alla sera andavano gli uomini, mentre le donne si organizzavano per la veglia notturna.
Prima della guerra non esistevano “thermos”, ma poi arrivarono anche quelli e così il caffè veniva portato caldo per tutti poiché in quella casa, mentre c’era il morto presente non si sarebbe acceso fuoco alcuno per cibi e bevande calde.
Ogni familiare era rigorosamente seduto al posto che gli competeva a fianco del letto, secondo il suo grado di parentela.
La stanza funebre veniva liberata da tutti i mobili trasportabili e al loro posto venivano allineate sedie in gran quantità così che i visitatori trovassero posto a sedere in circolo attorno al letto funebre.
Per quasi due giorni, tutto il paese sfilava e si soffermava in questa stanza come a voler tenere compagnia al morto, per l’ultima volta.
Il motivo non era solo quello; ci si ritrovava un po’ tutti ed era l’occasione per conversare, anche se sommessamente.
Qualcuno si fermava più del necessario per raccogliere maggiori informazioni sugli ultimi avvenimenti degli altri o aspettando magari qualche persona che non vedeva da tempo. A bassa voce si scambiavano notizie sulle loro famiglie e sui fatto dei paese e non di rado, si gettavano le basi per combinare matrimoni tra giovani che neppure si conoscevano, lasciando alla discrezionalità dei genitori valutare la convenienza sociale ed economica di favorire un simile approccio.
I componenti della famiglia del malcapitato, a turno, piangevano il morto a voce alta e con una specie di cantilena rievocavano la vita di costui esaltandone le qualità.
Nel caso il defunto in questione, in vita, fosse stato un po’ carognetta verso alcuni familiari, costoro coglievano l’occasione per intercalare le cantilene con frecciatine, più che dirette al morto, dirette alle persone in vita che avrebbero beneficiato dei torti da loro subiti e non raramente i chiamati in causa rispondevano con lo stesso indiretto sistema.
In questi casi l’eco si estendeva fuori dalla stanza, fuori dalla casa, così che i curiosi visitatori diventavano più numerosi per non perdersi le varie battute.
L’avvenimento di una morte si trasformava così in un’occasione per comunicare e conoscere le storie di attualità del paese. Era la televisione o il settimanale scandalistico dell’epoca, un bollettino che veniva ascoltato e riferito a chi non era presente.
Era cronaca rosa, cronaca gialla, argomenti sussurrati con autentico mistero, cronaca nera. Tutto il paese passava sotto i racconti delle croniste del tempo poiché le più informate erano sempre le donne.
La signora “bene” che non usciva mai da casa, mandava la serva a raccogliere informazioni e questa si documentava scrupolosamente per riferire ogni particolare che riteneva potesse interessare la sua “padrona”.
E queste erano poi le notizie sulle quali si sarebbero accentrati tutti i discorsi fino a nuovi avvenimenti.
Eugenio espletava tutte le incombenze relative ai funerali.
Suonava le campane a morto, preparava il catafalco, le sedie in chiesa e non dimenticava niente. Tutto veniva allestito secondo i desideri dei familiare e in proporzione alla retribuzione concordata.
Lui, Eugenio, suonava anche l’organo in verità un po’ sfiatato a causa del mantice ridotto in cattive condizioni e cantava i salmi con un biascicato latino che non era necessario fosse comprensibile; l’unico latino ‘conosciuto’ era infatti quello delle preghiere recitate dagli anziani del paese ascoltando le quali si poteva intendere quanto poco se ne masticasse.
Naturalmente c’era anche il parroco, ma Don Oreste poco si occupava di tali faccende.
Viveva ritirato nella sua casa dedicandosi al proprio arricchimento intellettuale che poteva coltivare anche grazie al fatto che egli possedeva una delle poche radio esistenti in paese che tra l’altro (si diceva che ascoltasse “Radio Londra”) gli permetteva di essere sempre aggiornato sugli ultimi bollettini di guerra.
L’ultimo atto della vita vissuta in quel paese era quello di essere accompagnato dal parroco e da tutti gli abitanti lungo il viale alberato che conduceva al cimitero.
Dal 1944 in poi nei discorso di tutti, gli avvenimenti venivano indicati come accaduti:
- prima della guerra
- dopo la guerra.
E' bello leggerti, Maria...
RispondiEliminaUn abbraccio
Ros