martedì 2 aprile 2013

La zia

  
                                                            LA   ZIA


                                     Zia. La chiamavo zia ma in realtà non eravamo neppure parenti
Era venuta ad abitare vicino a casa mia da circa dieci anni.
Vedova, abitava da sola. Quando era arrivata aveva già settanta anni ma non li dimostrava. Agile e deliziosa, si vestiva con cura, le piaceva condurre una vita confortevole e dignitosamente vivace.
È proprio vero che gli anni non si misurano dalla nascita ma dall’aspetto e dallo spirito che una persona conserva dentro se stessa.
Eppure aveva avuto una paralisi facciale, qualche anno prima e il suo cruccio era quella bocca leggermente storta che ogni giorno, guardandosi allo specchio, cercava di correggere. Con un po’ di trucco leggero e garbato e un po’ di ginnastica facciale inventata da lei, ci era riuscita, si avvertiva appena e la sua vita scorreva tranquilla.
              A ottantasei anni, la guardavo ultimamente in quel letto rivolta spesso a guardare le due foto ben incorniciate ed esposte sopra il comò: una del marito, da tempo scomparso, ed una dei suoi passati trent’anni.
Un ritratto ben fatto, bella, uno sguardo di occhi chiari e superbi, onde dei capelli corti e ben sistemati, alla moda degli anni trenta.
Su quel letto, vedevo ancora lo stesso sguardo, lo stesso portamento altero di chi non vuole arrendersi, di chi non vuole concedere agli anni e al male la sua parte e senza forzature artificiose ci era riuscita.
Aveva dei capelli bianchissimi e bellissimi, un bianco che creare artificialmente non è possibile, morbidi, impeccabilmente pettinati. Gli occhi chiari maliziosi e sfuggenti in un ultimo guizzo di civetteria. Un corpo snello ancora da mannequin, come amava definirsi prima di cedere il passo al male e al letto.
Nulla voleva concedere a quel male che avanzava e che lei rifiutava di qualificare per quanto veramente era. Non sono mai riuscita a penetrare quella mente ancora così lucida e capire se: sapeva!
Certo, l’aiutavo anch’io nel rafforzare la sua convinzione.
Quel male, lei diceva, le era venuto per suo errore, una infezione: un giorno, raccontava, mentre eseguiva le pulizie igieniche del suo corpo, si avvide che sotto il piede si era formato un pezzetto di carne sporgente come un filo molto spesso. Senza rifletterci su tanto, passando le mani nell’atto di lavarsi, l’aveva afferrato e strappato pensando così di disfarsi di quel piccolo imbroglio che poteva dare fastidio a lei che a ottanta anni portava ancora i tacchi alti.
La sua figura alta e snella acquistava maggior risalto con quei tacchi alti con i quali era abituata a camminare sin dalla sua gioventù che quella foto le rammentava.
Con nessuno parlò di questa cosa che in fondo era un suo fatto personale, lei era abituata da sempre a gestirsi da sola e a curare la sua salute con risultati eccellenti.
Dopo qualche mese però, quello strappo si mutò in una infezione e questa infezione, nonostante i medicamenti che eseguiva, cresceva.
Come un fiore che sboccia, senza alcun dolore (o era lei tanto forte da non denunciarlo) si limitava ad aumentare le foglie del male che non si aprivano a corolla ma si sovrapponevano, come un bocciolo di rosa nel tardo autunno quando il freddo incombente non gli dà la possibilità di aprirsi.
Queste foglie o petali si aggrovigliavano in una maniera raccapricciante formando una notevole protuberanza.
Uno sguardo rapido del dottore, il dubbio sciolto dagli esami in ospedale: “melanoma maligno”.
Certo i suoi occhi avevano colto un barlume di verità, ma il suo spirito indomabile non l’accettava.
Decise di seguire ogni terapia consigliata dai dottori ed erano loro gli amici che più considerava.
Cominciò così un lungo periodo di visite quindicinali al Day-Ospital San Giovanni di Torino.
Considerando l’età e non tenendo conto dello spirito giovanile, non ritennero opportuno intervenire chirurgicamente amputando il piede e iniziarono con una cura che consisteva nel praticare una serie di punture attorno alla parte malata nell’intento di arrestare questo dilagante male inguaribile.
I risultati erano apprezzabili ma la zia non poteva appoggiare il piede per terra vista la posizione in cui si trovava la protuberanza.
Per di più necessitava di medicazioni multiple giornaliere e bisognava fare i conti anche con emorragie saltuarie.
Un giorno disperata e un giorno ottimista, il tempo trascorreva e va detto che per lei quel doversi recare saltuariamente al Day-Ospital era diventata un’occasione di evasione; attendeva quel giorno come una fanciulla attende di recarsi ad una festa. Si preparava per tempo in ogni minimo particolare, voleva essere elegante e quindi terminata l’ultima visita, cominciava a prepararsi per la successiva; curava il colore di ciascun capo abbinando con gusto i colori della camicetta, dei pantaloni e dei foulard i quali erano il suo debole, ne possedeva di tutte le tinte.
Quando entrava al Day-Ospital, lo faceva festosamente, salutava i malati che incontrava nei corridoi e nelle stanze con allegria. Passava in mezzo a persone che avevano solo più in fondo agli occhi la speranza e li rincuorava; riusciva a trasmettere in questi cuori un briciolo di serenità fino a far spuntare un sorriso su labbra da tempo non più avvezze a quell’atteggiamento.
Reclamava il suo posto informandosi cosa avessero di buono in cucina come se si fosse recata al Grand Hotel ed un suo cruccio era che la cucina non disponeva di vino tanto che le infermiere, se ne avevano in proprio, gliene portavano un po’ così mangiava più volentieri.
Questo durò qualche anno, poi ci fu la bronchite e il ricovero in un ospedale diverso della città.
Il suo fare, il suo pretendere educatamente e scherzosamente faceva sì che tutti la trattassero con compiacenza.
Fu così che, guarita dalla bronchite, il primario volle parlarmi comunicandomi che la paziente aveva ben reagito alla malattia guarendo perfettamente ed espresse il suo parere su quel male che divorava il piede. Il suo consiglio era: amputare.
AMPUTARE, una parola che mai avrei ripetuto alla zia, ne sarebbe rimasta sconvolta, senza più la speranza di tornare a camminare.
Esclusi questa possibilità e il giorno dopo sarebbe tornata a casa per ricominciare la solita terapia sin lì seguita.
Invece al mattino seguente, trovai la zia che con fare autoritario di chi è ancora padrone della sua persona, rivolta ad una sua nipote disse:
“ho deciso di tagliare questo piede che mi fa tribolare”
“sei sicura?”
“Sì, la gamba è mia e ne faccio quello che voglio”. La nipote ribatté: “Ti rendi conto che resti senza un piede?”
“Certo” rispose “però non avrò più questo marciume infetto che provoca puzza e repulsione. Il professore ha detto che la mia salute è buona e che posso vivere altri dieci anni, con un arto artificiale sarò ancora in grado di camminare e vivere più serena”.
La decisione era presa e la volontà di ferro.
E così tutto era andato come voleva. Amputata la gamba, rifatto un arto artificiale; ginnastica a tutto andare fino a tornare a casa in grado di camminare da sola persino senza bastone.
Era tornata a fare i suoi lavori in casa, si metteva i pantaloni per coprire l’arto artificiale e scendeva al bar per fare chiacchierate con gli amici di sempre.
E questo a ottantatre anni.
Eppure quel male era in agguato. Non rispettava tanto coraggio e per ben due volte ancora si era riprodotto più in alto su quel pezzo di gamba che era rimasto.
Con coraggio aveva subito altre due operazioni e sempre, Lei, aveva ripreso a vivere gioiosamente.
Questo alternarsi di ricoveri in ospedale e di ritorni a casa faceva ormai parte delle sue abitudini. Il consiglio di disfarsi della casa e di andare a vivere in un pensionato veniva escluso categoricamente. La sua pensione non era altissima ma sapeva amministrarla con parsimonia e giudizio sì da avere sempre qualcosa per persone che potevano essere a lei utili.
Diventava, in questi casi, generosissima e volentieri si disfaceva di quel braccialetto, di quella catenina d’oro che possedeva e li regalava per aver avuto un giorno di compagnia. Qualche volta la rimproveravo, sempre con il sorriso, ma poi le davo anch’io qualche oggetto affinché lei potesse a sua volta regalarlo, tanta era la gioia che provava nel farlo.
Ma anche in questi regali c’era un pizzico di malizia: questo faceva sì che chi l’aveva ricevuto si sentisse in qualche modo obbligato e lei stessa, ricevendo il servizio, non si sentiva in dovere di riconoscenza, in fondo aveva pagato.
Quanti piccoli o grandi particolari si potrebbero ricordare.
Quante piccole astuzie per far sì che le persone che aveva occasione di incontrare la tenessero in considerazione.
La gratitudine era riservata solo al suo medico curante il quale, conoscendo la natura del suo male, veniva a trovarla anche se non chiamato. Penso che quel dottore, pur abituato ai mali e ai malati sarebbe gratificato e certamente lo era, nel sapere quanto bene arrecavano quelle visite.
Ho passato qualche anno a seguirla in questo suo peregrinare tra ospedali e casa ma soprattutto gli ultimi sette mesi durante i quali ero impegnata vicino a lei in continuità volendo che sentisse vicino una presenza affettuosa.
In quel prodigarmi vicino al suo letto alleviandole le sofferenze con farmaci che i medici mi davano da somministrarle e con sorprese giornaliere a lei care, pensavo di averle dato tanto e quasi mi compiacevo. Ma ora che ho finito di adempiere al mio compito con il curare l’atto finale che mi aveva raccomandato il suo funerale, sentivo un gran vuoto, le mie giornate non avevano più senso, mi mancava quel contatto umano e quella voglia di vivere che sapeva trasmettermi.
Riflettendo attentamente sento che in fondo, in questo mio dare, pesa di più quanto ricevuto.
Ho assistito a qualcosa di irripetibile: ottantasette anni e una gran voglia di vivere, godendo di ogni piccola gioia e facendo progetti per il futuro.
Ed io che con la metà dei suoi anni, non riesco a pensare che si possano ancora fare progetti per il futuro.

      Premio narrativa 2° concorso
“ Spazio Cultura “  1986   Mestre
                                                                                                        Maria  Dulbecco


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