Viaggio in sudan
Viaggio in Sudan. Alla riscoperta di Berenice Pancrisia, la città del deserto nubiano dove i faraoni estraevano l’oro.
A me piace visitare luoghi un po’ fuori dai circuiti ordinari, spinto da un misto di interessi che vanno dalla sete di grandi spazi al fascino per la storia meno conosciuta, dall’attrazione per modi di vivere diversi, quasi sempre poveri e superati, al gusto per i costumi tradizionali che ancora sopravvivono, dal richiamo delle vaste solitudini alla seduzione verso ambienti poco ospitali o frequentati.
Con questo spirito, nell’ottobre del 2011 ho scelto un viaggio in Sudan, paese ben poco turistico e visitato, ma che offre, oltre alle immensità dell’inospitale deserto, una storia antica ma “minore” che risale ai faraoni, e l’immersione in una realtà di oggi abbastanza povera e caratterizzata da un Islam ben radicato.
Questo viaggio però, oltre a percorrere un pezzo della valle del Nilo, unica striscia di terra fertile dove sono situati tutti gli insediamenti moderni e le località antiche, come nel vicino e più noto Egitto, si proponeva di raggiungere Berenice Pancrisia, un antico insediamento minerario per l’estrazione dell’oro della regione storica della Nubia, situato nel deserto nord-orientale del Sudan.
La città avrebbe avuto il nome da Tolomeo II Filadelfo, faraone ellenistico d’Egitto che, nel 271 a.C. circa in onore della madre Berenice, ribattezzò la località mineraria dopo averla completamente ristrutturata e ampliata. L’attributo “Pancrisia” deriverebbe invece dal greco panchrysos, “tutta d’oro”, oppure, secondo un’altra ipotesi, dal nome del dio Pan, nome greco di Min, divinità egizia del deserto. Quindi in sintesi il significato di Berenice Pancrisia, in greco Berenike Panchrysos, sarebbe Berenice città d’oro o del dio Pan.
Il sito minerario risale però a molto tempo prima della dinastia tolemaica quando, durante il Nuovo Regno d’Egitto, iniziò la produzione industriale del metallo che in precedenza veniva raccolto nei ruscelli montani in superficie come oro alluvionale. Il luogo risulta infatti indicato da:
- Seti I, in una mappa del deserto di Wawat dove fece approntare dei pozzi di acqua con grande dispendio di uomini e mezzi;
- Ramses II, che in una stele incisa nel granito a Kubban, mostrava la via delle miniere ricordando la costruzione di un pozzo. Questa stele si rese necessaria perché molti uomini che dovevano andare a dilavare l’oro morivano di sete, persi nel deserto o sulla via del ritorno, non portando quindi più il prezioso carico nelle casse del faraone. Ramses II ripristinò i pozzi d’acqua scavati da Seti I, che nel frattempo si erano prosciugati per la diminuzione della portata della falda idrica, legata alla desertificazione già allora in atto;
- Thutmosis III, che sulle pareti del tempio di Karnak a Luxor elencò i lunghi e minuziosi conteggi dei tributi in oro provenienti dalla regione di Wawat. I geroglifici dicono che da quella zona, in soli quattro anni, furono importati circa 11000 deben di oro puro, cioè quasi una tonnellata;
- Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia;
- Diodoro Siculo che, circa nel 30 a.C. nel suo libro III della Biblioteca Storica, descriveva le zone di quarzo aurifero della Nubia tolemaica informandoci che a sud dell’Egitto, tra Arabia ed Etiopia, c’era un luogo pieno di minerali e di miniere d’oro e dove veniva estratto l’oro con l’immane fatica di minatori la cui unica speranza era “di morire il più presto possibile”. La raccolta della quarzite era effettuata sia da depositi alluvionali che da scavi in superficie, a trincea, a galleria e a pozzo. Questi ultimi seguivano le vene di quarzo ed arrivavano fino a 50 m di profondità. Il quarzo estratto veniva poi frantumato con pesi di pietra, polverizzato nelle macine e dilavato per ricavare l’oro. Da una tonnellata di materiale grezzo si ottenevano solo quattro o cinque grammi d’oro.
Anche numerosi esploratori arabi conoscevano Berenice Pancrisia, ma all’inizio del IX secolo le mutarono il nome in Allaqi e in Ma’din ad-dahab, ossia miniera d’oro. Restò così conosciuta fino al XII secolo quando iniziò il declino, poiché estrarre oro nel deserto divenne eccessivamente costoso principalmente per carenza di acqua. Infine, nel 1600 circa, si perse l’ubicazione precisa e Berenice fu cancellata dalle carte geografiche e dalla toponomastica. Fu riscoperta solo nel 1989 da una spedizione italiana utilizzando una mappa del geografo-astronomo arabo Al-Khuwarizmi del IX secolo.
Cronaca del viaggio
Parto, con mio disappunto, il 1° ottobre. E’ troppo presto e si rischia di trovare un gran caldo, ma il viaggio è organizzato con questa partenza. Siamo in sedici, dotati di tende, una dozzina di scatole contenenti viveri, una cassa con fornello e pentole. Il ritrovo è all’aeroporto di Roma.
Dopo un cambio di volo ad Amman, arriviamo a Khartoum alle quattro del mattino. Qui assaporiamo un sonno troppo breve in un piccolo albergo della capitale sudanese e poi facciamo un giro turistico della città.
Prima fermata alla Grande Moschea dove non è permesso l’ingresso ai non musulmani; la fotografiamo pertanto unicamente dall’esterno. Andiamo poi al Museo Nazionale, dove sono di particolare interesse i templi egizi ricostruiti nel giardino con i materiali smontati e trasferiti nei primi anni ’60 a seguito della costruzione della diga di Assuan.
Nel pomeriggio troviamo chiusi sia la tomba del Mahdi (il capo della rivolta contro l’occupazione egiziana nel 1800, protagonista dell’assedio di Khartoum difesa dall’inglese Gordon Pascià nel 1885) con le sue cupole argentee, sia il Khalifa House Museum, ex abitazione del califfo suo successore. Gironzoliamo poi un paio d’ore nel suk di Omdurman e terminiamo con una sosta alla confluenza del Nilo azzurro con quello bianco. L’area ha importanza simbolica ma il posto è misero.
Il giorno successivo partiamo con cinque fuoristrada, ma ci fermiamo subito al mercato per fare gli acquisti di quanto abbiamo ancora bisogno, specie per i primi giorni: bombola del gas, acqua in bottiglie di plastica in gran quantità, pane, frutta, verdura, una pentola in alluminio, un coltello supplementare e grandi stuoie sulle quali mangiare ed eventualmente dormire sotto le stelle.
Prendiamo quindi verso il nord la strada che segue a distanza il Nilo. Percorrendo poi una pista sabbiosa in un ambiente di savana arriviamo alla zona archeologica di Musawwarat es Sufra, un centro di culto del IV secolo a.C., caratterizzato da un complesso edificato entro un grande recinto perimetrale di oltre 600 m e da un tempio dedicato al dio Leone Apedemak, con pareti esterne decorate a bassorilievo.
Verso sera, mentre andiamo lungo un uadi (letto in cui scorreva, e scorre ancora quando raramente piove, un corso d’acqua) per fare il campo, due auto si insabbiano miseramente e perdiamo quasi un’ora. Montiamo le tende mentre inizia a fare buio e cuciniamo. Io sono nel turno di cucina come aiutante: spaghetti, salumi, frutta fresca.
Alle 6 c’è già luce e ne approfittiamo per smontare le tende prima che faccia caldo. Questa notte la minima notturna è stata di 24°.
Visitiamo la zona archeologica di Naga, sito del IV sec a.C. – IV sec d.C. che è stato uno dei centri del Regno di Kush, che fungeva da ponte tra il mondo mediterraneo e l’Africa. Il sito ha due importanti templi, uno dedicato al dio Amon e l’altro al dio Leone Apedemak, con pareti esterne a bassorilievo e un chiosco romano nelle vicinanze.
Raggiungiamo poi la cittadina di Shendi dove restiamo tre ore per pranzare, fare acquisti, visitare il mercato e infine aspettare gli autisti che hanno un problema di riparazione a un’auto.
A metà pomeriggio entriamo nella Necropoli Reale di Meroe, la capitale più tarda del Regno di Kush, che è il più grande agglomerato di piramidi esistente in Sudan, dichiarato dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità nel 2003. Queste piramidi sono più piccole di quelle egizie. Il loro stato di conservazione è buono, anche se tutte le tombe sono state saccheggiate, per ultimo dal cacciatore di tesori Giuseppe Ferlini che nel 1834 mandò in frantumi le cime di 40 piramidi trovando però un solo nascondiglio di oggetti d’oro, oggi esposti a Berlino e Monaco. Facciamo il campo dietro una collina dalla quale è possibile ammirare la necropoli dall’alto.
Il giorno successivo cominciamo con il vicino Royal Palace, una vasta area anticamente molto importante ma che adesso è solamente una distesa di pietre, per la quale si deve pure pagare l’ingresso. Riprendiamo quindi la strada asfaltata che sale su un altopiano formato da sassi nerastri fino a raggiungere Ed Damer, dove acquistiamo ancora acqua e pane.
Superato il Nilo su un nuovo ponte iniziamo l’attraversamento del deserto del Bayuda lungo una strada che taglia la grande ansa che il fiume forma verso ovest scorrendo da nord a sud. Dopo circa 180 km, qualche decina prima di raggiungere il fiume, abbandoniamo la strada asfaltata per una pista sabbiosa punteggiata da acacie ombrellifere, e verso sera ci fermiamo per il campo ai piedi di un gruppo di piccole dune di sabbia.
Per quasi tutta la notte un vento caldo misto a sabbia talmente fine che sembrava polvere ha sferzato le nostre tende. Alle 21, quando ci siamo coricati, il termometro segnava 36° per scendere all’alba a 28° come minima notturna. Dormire in tenda era come stare in un forno, dormire fuori si veniva ricoperti dalla polvere.
Lasciato il campo, visitiamo brevemente i ruderi della chiesa e del convento cristiano copto di Ghazali e raggiungiamo quindi il verde della vegetazione che fiancheggia il Nilo nei pressi della Necropoli di Nuri, la più importante di Napata, prima capitale del Regno di Kush. Qui le piramidi sono più alte ma peggio conservate rispetto a Meroe.
Attraversato il Nilo sopra un ponte inaugurato solo tre mesi prima, ci spostiamo a El Kurru dove visitiamo le uniche due tombe sotterranee aperte al pubblico, a cui si accede tramite una ripida scala di pietra. All’interno si possono osservare iscrizioni geroglifiche e numerose immagini policrome.
Nella vicina città di Karima ci fermiamo per il pranzo e per i quotidiani approvvigionamenti di acqua, pane, frutta e verdura.
Nel pomeriggio ci spostiamo a Jebel Barkal, la vicina zona archeologica alla base di una montagna sacra alta circa 70 metri dalla cui sommità si gode un ampio panorama a 360° del territorio circostante. Vediamo i resti del tempio di Amon e le poche piramidi della necropoli, quindi saliamo sulla cima del monte come sicuramente fece Thutmosis III nel 1640 a.C. dopo aver conquistato il regno di Kush. Da lassù ammirò come noi il panorama sul Nilo.
Questa notte sistemazione di lusso: il custode del complesso ci affitta una casa vicina, e il prezzo comprende l’utilizzo di letti, due apprezzatissime docce, bagni e cucina.
Il mattino attraversiamo il Deserto dell’Atmur tagliando l’altra grande ansa che il Nilo forma ancora verso ovest, questa volta scorrendo da sud a nord. Dopo circa 100 km di una nuova strada asfaltata arriviamo nel sito denominato Old Dongola, dove in una grande pianura desertica nei pressi del fiume si ergono le “qubbe”, costruzioni in mattoni rossi dalla caratteristica cupola conica che sono enormi tombe monumentali dei Marabutti, santi uomini mussulmani. Ne visitiamo alcune rispettando le più umili tombe che le circondano.
Vediamo invece solo dall’esterno, perché pericolante, l’antico monastero copto trasformato in moschea nel 1317. Edificio cubico dalle possenti mura in mattoni crudi simile ad un castello, posto su una piccola altura che domina la necropoli e la fascia verde del Nilo. Poco distante si trovano i resti di chiese copte con affascinanti colonne emergenti dalla sabbia e relativi capitelli caduti al suolo.
Proseguiamo quindi verso nord finché la strada asfaltata s’interrompe bruscamente per continuare lungo una pista sabbiosa e incerta che costeggia da lontano la riva orientale del Nilo. Raggiungiamo Mulwad, un villaggio nubiano di case prevalentemente bianche con bei portali dipinti che danno rilievo all’ingresso dell’abitazione, quindi Selim, un villaggio più grande, dove un amico del capo degli autisti ci offre in affitto una casa.
Il mattino visitiamo ciò che resta del tempio egizio di Kawa. Quelle che sembrano le fondamenta del tempio di Amon e le basi delle colonne sono, al contrario, la parte alta di mura e capitelli. La base del tempio sta sotto la sabbia.
Ritornati a Selim facciamo una breve sosta al mercato per acquisti e per il rituale controllo di polizia. Ripercorriamo quindi la strada del giorno prima e torniamo a Karima dove pranziamo col nostro cibo in un ristorantino del centro.
Nel pomeriggio partiamo risalendo il Nilo verso nord-est, a molta distanza nel deserto, per una pista sabbiosa che a tratti costeggia una vecchia ferrovia in disuso costruita dagli inglesi. Ci fermiamo alla base di una piccola duna per il campo.
Il giorno dopo proseguiamo lungo la pista per raggiungere la città di Abu Hamed. Attraversiamo un deserto piatto, sassoso e polveroso finché arriviamo su una strada asfaltata che in 20 km circa ci porta in città.
Qui abbiamo due appuntamenti: uno con un pick-up di appoggio arrivato da Khartoum con quasi 600 litri di carburante, il secondo con un anziano appartenente all’etnia autoctona beja, che conosce le piste per raggiungere Berenice e che ci farà da guida. Con lui abbiamo una lunga e travagliata trattativa per definire la sua ricompensa, che finisce dopo ben due ore.
Riparazioni e controlli delle auto, pranzo, acquisto d’acqua per almeno quattro giorni ci consentono di lasciare la città solo nel tardo pomeriggio, per cui dopo soli 70 km di deserto verso nord e prima del tramonto ci accampiamo su una meravigliosa piana di sabbia color ocra.
Con il nuovo giorno inizia la vera traversata del deserto nubiano per raggiungere prima Berenice e in seguito il Mar Rosso. Viaggiamo verso nord seguendo una sterminata pianura dove l’occhio spazia a 360°. Per tutto il giorno incontriamo cercatori d’oro che con apparecchiature cercametalli camminano con la speranza di rilevare questo prezioso metallo. Talvolta scavano cunicoli nel terreno alla ricerca di vene aurifere, ma per lo più setacciano il terreno scavato in superficie. Sono poveri disgraziati che sicuramente non si arricchiranno con questo lavoro massacrante effettuato in un ambiente torrido. Quello che più meraviglia è che sembrano felici quando ci avvicinano a loro, sorridono stringendoci le mani e per un nonnulla ridono come bambini.
Il nostro GPS (strumento satellitare che fornisce la posizione in cui ci si trova su una mappa) ci indica che Berenice si avvicina, ma siamo ancora molto lontani e la velocità di crociera media è di soli 30 km l’ora.
Troviamo con un po’ di difficoltà, girovagando tra basse alture, la località di Fort Murrat, dove ci sono i resti di un antica postazione turca dove veniva raccolto e protetto l’oro trovato nella zona. Ci accampiamo in un vicino uadi sabbioso.
Seconda giornata in direzione di Berenice. Il nostro GPS ci conferma, tutte le volte che lo consultiamo, che ci stiamo avvicinando, ma ad una velocità inferiore sia alle nostre attese, sia a quanto ci aveva detto la guida.
Anche oggi incontriamo molti cercatori d’oro e varie volte ci fermiamo. Mentre gli autisti scambiano con loro i saluti, anche noi ci proviamo. Pranziamo sotto acacie spinose mentre il termometro segna 43°. La nostra guida ci prepara un forte caffè allo zenzero con gusto di pepe.
Prima di sera incontriamo un pozzo da cui estraiamo acqua che ci serve per la cucina a per lavarci. Per la notte ci fermiamo su una piana sabbiosa. Berenice è ancora lontana: il GPS segna 100 km in linea d’aria.
Questa notte finalmente ha fatto fresco. La minima all’alba è stata di 19°, uno sbalzo di ben ventiquattro gradi dalla massima di 43° toccata ieri mentre pranzavamo.
Oggi raggiungeremo Berenice Pancrisia. Di cercatori d’oro non c’è più traccia. Il territorio che attraversiamo è completamente deserto con poca sabbia, molta roccia e polvere.
Dobbiamo per forza aggirare un sistema di alture che ci costringe a sconfinare in Egitto: è la via obbligata per arrivare alla meta. Finalmente imbocchiamo un uadi largo e profondo almeno 50 metri, dove incontriamo alcuni nomadi con tende che sollevano acqua da un pozzo. La ricerca di Berenice prosegue tra gli uadi che confluiscono, con alcuni insuccessi. Qualche volta dobbiamo invertire la marcia perché invece di avvicinarci, ci allontaniamo. Poi finalmente imbocchiamo lo uadi giusto e arriviamo al sito di Berenice Pancrisia, tre giorni dopo aver lasciato Abu Hamed e aver percorso 653 km.
Il sito si trova all’interno di un antico fiume in secca, il Uadi Allaqi, tra basse colline di rocce sfaldate e montagne di granito. Questo fiume, in tempi molto remoti, era il maggior tributario del Nilo ed era lungo più di 400 km ma, con lo sconvolgimento ecologico del Sahara, si prosciugò regalando però oro e pietre preziose, come gli smeraldi. Oggi il greto del fiume è cosparso di imponenti acacie e lì, nel mezzo del uadi, ci sono due fortini in stile greco-romano, con qualche variazione araba, alti almeno sei metri, a pianta quadrata, con muri in pietre scistose, che dovevano servire come deposito dell’oro estratto. Uno è largo circa 30 metri, con un torrione e numerosi archi in pietra. I muri, spessi quasi un metro, sono perfettamente a piombo. Il secondo ha dimensioni simili e presenta un vasto cortile con pozzo, e numerose stanze che si aprono intorno. Una scala porta ai camminamenti.
Sul margine destro del uadi, in posizione soprelevata, ci sono i resti della città dei minatori, con strade e traverse regolari come un accampamento militare. Le abitazioni erano semplici, edificate con pietre a secco.
Noi visitiamo il sito e montiamo le tende sulla sabbia all’interno dell’area archeologica
All’alba il pick-up è partito per riportare la nostra guida ad Abu Hamed e proseguire poi per Khartoum. Noi invece iniziamo ora l’itinerario verso est, cioè verso il Mar Rosso.
Prima di tutto dobbiamo risalire il uadi fino ad uscirne, per scendere poi dal basso sistema montuoso in cui ci troviamo. Il nostro capo autista non è mai passato di qui e ci dobbiamo affidare integralmente al GPS che, oltre a fornire la nostra la posizione, indica la direzione da seguire e la distanza per raggiungere una serie di punti, in precedenza memorizzati, per i quali è opportuno passare. Ma non è così facile, perché per arrivare occorre anche trovare anche un passaggio percorribile. Così qualche volta dobbiamo ritornare sui nostri passi o girovagare: cumuli rocciosi o discese impossibili ci impediscono di proseguire, altre volte il terreno anche se piatto non è agevole, mentre piste o tracce di automezzi vanno in varie direzioni. Alla fine comunque ci troviamo su una pista che va nella giusta direzione. Incontriamo anche ogni tanto qualche nomade.
Quando comincia a fare buio non riusciamo a trovare un posto decente per il campo, il terreno è una pietraia polverosa e così, anche su consiglio degli autisti, proseguiamo alla luce dei fari. Alle 21 però sono gli stessi autisti che sfiniti chiedono di fermarci per la notte in uno spiazzo sabbioso: abbiamo percorso 293 km in più di dodici ore, in linea d’aria siamo a 32 km dal mare. Dormiamo sulle stuoie senza montare le tende.
Ci alziamo un po’ bagnati per l’umidità, la prima volta nel viaggio. Alle 13 siamo al posto di polizia di Muhammad Qol, sul Mar Rosso,dove dobbiamo registrare il nostro passaggio.
Adesso siamo su strada asfaltata e scendendo verso sud raggiungiamo un piccolo complesso turistico sul mare dove ci fermiamo perché vogliamo fare il bagno nel Mar Rosso. Nessun bungalow è occupato ma qualche famiglia locale c’è. L’acqua è torbida fino a 50 metri dalla riva, il fondo è fangoso, ci si pianta fino alle caviglie: fare il bagno non è un piacere.
Mangiamo e dopo un paio d’ore partiamo per Port Sudan, la città portuale del paese, dove prendiamo alloggio in un hotel. Finalmente una doccia!
Nell’ultimo giorno facciamo un’escursione a Suakin, 60 km a sud. La città vecchia sorge su una piccola isola all’interno di una baia che comunica con il mare tramite uno stretto canale. Qui nei secoli scorsi ricchi mercanti della tratta degli schiavi fecero edificare, con blocchi di corallo, eleganti palazzi, moschee, magazzini e pontili per le navi. Ora di tutto questo rimangono resti cadenti o crollati, perché dall’inizio del ‘900 le attività commerciali vennero via via tutte trasferite nella nuova città di Port Sudan. Sono però in corso molti lavori di ripristino.
Nel pomeriggio ci trasferiamo in aeroporto e voliamo a Kartoum. Di qui, sempre via Amman, ritorniamo in Italia.
Ermanno Costa
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